Da un po' di tempo a questa parte, la denominazione “cambiamenti climatici” viene sempre più usata per descrivere eventi atmosferici improvvisi e a quanto pare del tutto imprevedibili, causa spesso di danni a cose e persone. Ultimamente abbiamo visto usare questa espressione anche per giustificare il cataclisma che ha colpito la regione Emilia Romagna, causando un disastro di proporzioni mai viste prima in Italia. Solo dopo la devastazione sono stati rilevati innumerevoli fattori concausanti, come ad esempio la mancanza di un progetto idrogeologico complessivo a fronte di opere di cementificazione senza criterio.

Ma l'essere umano non si sta accorgendo a che cosa realmente si riferisce con questa terminologia da lui stesso creata, “cambiamento climatico”. Oggi, infatti, ci riferiamo a quest'ultima, per indicare un qualcosa di cui non abbiamo le redini, che non dipende da noi, e con il quale non possiamo fare nulla. Non siamo affatto consapevoli del distacco psicofisico che da anni teniamo sia dalla Natura che dalla nostra Natura, due processi inevitabilmente interconnessi ma al contempo distinti. Il contatto con la Natura, infatti, riguarda la nostra capacità di sentire, ascoltare, contattare la terra, l'aria, le piante, gli animali, mentre il contatto con la nostra Natura indica la capacità di sentire, ascoltare, contattare il nostro corpo e più in generale noi stessi come facenti parte dell'ambiente che abitiamo. Da questo punto di vista, il “cambiamento climatico” si configura come l'espressione della nostra incapacità di avvertire tanto i bisogni della terra quanto dei nostri personali. Siamo così distanti da ciò che ci circonda, che non lo sentiamo più “nostro”, siamo spaventati dai più semplici “movimenti” della terra e quelli di grande proporzione li avvertiamo addirittura come un operato non nostro, ma di qualche forza o divinità superiore, a noi avversa. Alcuni attribuiscono i disastri alla “Natura che si ribella” senza minimamente pensare che anche noi siamo “Natura”, anche noi ci muoviamo all'interno della cornice “Natura”, ne siamo parte integrante, e nell'80% dei casi, siamo responsabili noi, di ciò che vediamo misteriosamente come “avverso”. Il geologo Tozzi, in un'intervista, ha affermato che i canali di scolo dei campi coltivati in Emilia seguono dei criteri ingegneristici che niente hanno a che fare con le esigenze di drenaggio naturale di quella terra. Lo stesso fango riversato ovunque nelle strade e nelle case sembra proprio, da un punto di vista ecospirituale, ciò che l'uomo ha voluto provocare con la sua cieca gestione politica, evitando per decenni di prendere atto della realtà psicofisica dell'ambiente, e creando così una sorta di boomerang di ritorno, nel quale le forze disattese della Natura, alla fine, non trovando le “naturali strade di confluenza” ma blocchi (impedimenti dovuti a cattiva gestione ed incuria), hanno trovato nell'esplosione violenta l'unico modo di confluire. L'effetto di questa cecità “innaturale” del tutto umana (perché gli altri animali da noi non l'hanno persa, essendo più a contatto con la Natura per dotazione fisiologica), porta sempre ad un blocco gigantesco: in Emilia il fango ha invaso tutto, la gente è stata costretta a fare i conti in estremo con quella terra “non-vista”, spalando energicamente per potersi di nuovo “muovere” e vivere. Colpisce, nei racconti dei residenti, la voglia di ripartire ma, al contempo, quella consapevolezza pesante, intima e dolorosa (di chi ha vissuto in prima persona la perdita di cose, case, persone, ed affetti), che “niente sarà più come prima”, come se ciò che verrà in seguito, sarà per forza “nuovo”, lavato, “portato via”, rinato dalla “tabula rasa” della forza distruttrice della Natura che ha trovato sbocco ed espressione solo in questo modo. Cioè, è un “nuovo” che non vuole più ricadere nella situazione traumatica appena vissuta.

Il dibattito sui “cambiamenti climatici” è ancora fervente in ambito scientifico, e ciò mi conferma in pieno l'assoluta inconsapevolezza con cui ci stiamo approcciando al “problema”. Ad esempio scienziati della portata di Zichichi e Rubbia, affermano che non stiamo attraversando nessuna fase di “cambiamento climatico” perché la Terra, in età antica, era già attraversata da mutamenti catastrofici ben più devastanti di quelli a cui oggi siamo abituati, riprova del fatto che il nostro operato non influisce per niente con queste variazioni atmosferiche. All'opposto, altri ricercatori sostengono che l'immissione nell'atmosfera terrestre di inquinanti prodotti dalle nostre attività industriali, nuoce gravemente ai sottili equilibri che si susseguono tra i vari elementi della terra, e che perciò modificando le nostre “abitudini di vita” possiamo ridurre l'inquinamento e migliorare la qualità dell'aria, della terra e del surriscaldamento. Più ascolto le varie versioni e più mi rendo conto come l'uomo non sia affatto consapevole di essere parte di questo mondo ma di continuare a ragionare sul problema come se fosse distante da esso e non “dentro”. Ad esempio, non vedo nessun contrasto tra le due posizioni appena esposte perché 1. se già questa perturbabilità atmosferica esisteva e fa parte del “moto” naturale della terra, a maggior ragione dobbiamo essere attenti a come provochiamo ulteriore energia con le nostre attività, per favorire il flusso energetico e non bloccarlo, e 2. se invece siamo solo noi i responsabili di tutto questo, a maggior ragione ci dovrebbe essere una consapevolezza seria sulla Cura della Natura in cui viviamo, prima che piangere poi amaramente sul latte versato. Invece il confronto si “esaurisce” nella contesa della "ragione”, come se la veridicità di una posizione eliminasse automaticamente la posizione dell'altra, un atteggiamento infantile che dimostra quanto l'essere umano sia ancora indietro nell'approcciarsi al problema.

Basterebbe, invece, ammettere di “non-sapere-più” con umiltà, invece di fare tanti discorsi, riportarsi nella Natura, fisica e psichica, ciscuno con i propri mezzi e tempi.

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